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Che cos’è la merdificazione, il processo impercettibile che rovina le piattaforme che adoriamo
Il termine “enshittification” (anche italianizzato con “merdificazione“) è stato coniato da Cory Doctorow per descrivere un fenomeno che milioni di persone riconoscono senza bisogno di spiegazioni: quei servizi online che all’inizio sembrano rivoluzionari, comodi, addirittura generosi, e che nel giro di qualche anno diventano più lenti, più opachi e decisamente meno utili. Non è una questione di nostalgia o di idealizzazione del passato: Doctorow descrive un modello economico preciso, un percorso quasi naturale per molte piattaforme che crescono rapidamente e finiscono per privilegiare la monetizzazione sopra ogni altra cosa. L’idea di fondo è semplice: più una piattaforma si allarga, più deve soddisfare categorie di attori con interessi divergenti. E, quando la pressione commerciale aumenta, spesso la qualità dell’esperienza utente diventa la variabile più sacrificabile.
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Le tre fasi
Secondo Doctorow il processo di enshittification procede in tre fasi riconoscibili. La prima è quella della seduzione: la piattaforma si presenta come uno spazio ottimizzato per gli utenti, con poche pubblicità, funzionalità gratuite e un’atmosfera quasi “amichevole”. È la fase dell’innamoramento, quella in cui il servizio fa di tutto per risultare indispensabile.
La seconda fase arriva quando la base utenti è ormai ampia e stabile. A quel punto la piattaforma inizia ad accomodare maggiormente gli inserzionisti o i venditori, introducendo modifiche che non sempre sono percepibili al momento, ma che spostano gradualmente l’equilibrio dal beneficio dell’utente a quello di chi paga per visibilità. Non è ancora un peggioramento drastico, ma l’esperienza inizia a cambiare.
La terza fase, quella più evidente, è il momento in cui la piattaforma smette di ottimizzare per utenti e inserzionisti e comincia a ottimizzare solo per sé stessa. È qui che compaiono interfacce più affollate, funzioni nascoste dietro meccanismi poco trasparenti, lock-in più rigidi, pubblicità più invadenti. È anche il momento in cui molte persone iniziano a percepire chiaramente che “qualcosa” si è inclinato.
Infine, le piattaforme muoiono.
Perché succede
Il cuore della merdificazione, nella lettura di Doctorow, sta tutto nelle pressioni economiche e commerciali che guidano le decisioni di un’azienda. Una piattaforma che gestisce due “facce” del mercato, quella degli utenti e quella degli inserzionisti, deve per definizione mediare esigenze opposte. Finché l’obiettivo principale è la crescita, gli utenti vincono. Quando però gli investitori chiedono risultati immediati, il baricentro si sposta. E quando la piattaforma raggiunge una posizione dominante o quando gli utenti sono legati da forti effetti di lock-in, resistere al deterioramento diventa difficile. Non c’è bisogno di immaginare strategie maligne: è la logica del modello di business stesso a produrre pressioni che portano, lentamente ma con costanza, al peggioramento del servizio.
Gli esempi
Doctorow ha citato più volte TikTok come esempio di piattaforma passata da una fase in cui l’algoritmo sembrava cucito sui desideri degli utenti a una fase in cui la promozione di determinati contenuti risponde sempre più alle esigenze della piattaforma stessa. Altri osservatori hanno notato dinamiche di enshittification in servizi come Amazon, dove la ricerca è diventata progressivamente più affollata di inserzioni e risultati sponsorizzati, o nei feed di Meta, in cui la visibilità organica è stata progressivamente compressa a favore dei contenuti promossi. Anche Google Search viene spesso discusso come caso in cui l’equilibrio tra risultati utili e risultati commerciali si è spostato nel tempo.
Si può evitarlo?
Doctorow non parla solo di diagnosi, ma anche di possibili antidoti. L’interoperabilità è uno dei più importanti: se un utente può spostare facilmente i suoi dati e continuare a comunicare con la stessa rete anche da un’altra piattaforma, il potere di lock-in diminuisce. Un altro concetto chiave è il cosiddetto “right to exit” (il “diritto a uscire”): la possibilità di abbandonare un servizio senza perdere tutto, un po’ come accade quando si cambia operatore telefonico mantenendo il numero. Sono soluzioni all’enshittification che richiedono politiche, standard e una volontà collettiva non banale, ma sono almeno percorsi concreti e non semplici slogan.
Un termine che fotografa una frustrazione comune
La parola “enshittification” funziona perché offre un’immagine semplice per descrivere qualcosa che molti utenti vivono da anni. E lo fa in modo brutale e diretto, rispecchiando così la sensazione diffusa di frustrazione degli utenti. Dà una forma chiara a un disagio diffuso: la consapevolezza che molte piattaforme non sono peggiorate per negligenza, ma per scelta strategica. Perché il loro modello di crescita le spinge, quasi inevitabilmente, in quella direzione. Una direzione considerata, da molti utenti comuni, di… m*rda.
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