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Un viaggio dagli anni ’90 a oggi tra espansioni, microtransazioni e abbonamenti: quando pagare per i contenuti extra significa anche creare nuove parole
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Parlare di videogiochi significa anche parlare di soldi. Non solo del prezzo di copertina, ma anche di tutto ciò che si aggiunge dopo: contenuti extra, espansioni, pacchetti, stagioni. Ogni nuova formula di pagamento non ha soltanto cambiato il modo in cui i giocatori approfondiscono i videogiochi del proprio cuore, ma ha portato con sé un termine nuovo, un tassello lessicale che è entrato nel linguaggio comune. In fondo, possiamo parlare di una doppia espansione: del gioco stesso, ma anche del nostro vocabolario. In questo viaggio, seguiremo una linea storica dagli anni ’90 a oggi, osservando come si è evoluta l’offerta (e la monetizzazione) di contenuti aggiuntivi e come le parole che li descrivono abbiano, a loro volta, ampliato il nostro modo di raccontare i videogiochi.
Le prime espansioni e i DLC
Sin dalla loro nascita, un giocatore che voleva giocare a un titolo lo acquistava fisicamente e, una volta esauriti i suoi contenuti, l’esperienza finiva lì. Ma dagli anni ’90, per i videogiochi per PC, hanno cominciato a essere prodotti aggiuntivi, chiamati espansioni o, in inglese, expansion pack. Ad esempio, l’espansione Beyond the Dark Portal per Warcraft II nel 1995, Diablo: Hellfire per Diablo nel 1997. In seguito per il grande pubblico, sono arrivate le innumerevoli espansioni per The Sims. Tutte queste rappresentavano pacchetti aggiuntivi contenenti nuove storyline, missioni, meccaniche mappe, personaggi e altro ancora. Per i giocatori, pagare significava ottenere altro tempo di gioco in un mondo di cui non avevano avuto ancora abbastanza.
Negli anni 2000 comincia a diffondersi l’acronimo DLC, per “Downloadable Content” (contenuto scaricabile), che indica contenuti aggiuntivi scaricabili online. A differenza delle vecchie espansioni fisiche, i DLC potevano essere molto più variabili in termini di dimensioni e prezzo, potendo includere anche solo semplici elementi estetici. L’episodio più discusso arrivò nel 2006 con l’Horse Armor Pack di The Elder Scrolls IV: Oblivion: un’armatura decorativa per i cavalli venduta a un prezzo eccessivo rispetto a ciò che offriva (2,50$ per quella che ora definiremmo skin). Il caso suscitò molte critiche ed è rimasto nell’immaginario come simbolo di un nuovo modo di monetizzare.
Gratis, ma non troppo: free to play e microtransazioni
Con la diffusione dei giochi online e, soprattutto, sugli smartphone, nel primo decennio del 2000 prende piede il modello free to play, giochi scaricabili senza spese iniziali. Alcuni titoli restano davvero gratuiti, mentre molti altri iniziano ad affiancare formule di monetizzazione interna, sotto forma di microtransazioni, che diventano particolarmente centrali nei giochi mobile. Alcuni di questi giochi cominciano anche a creare valute interne, naturalmente anche quelle acquistabili con soldi veri. Per il giocatore, ciò crea una frattura: da una parte la possibilità di divertirsi senza spese, dall’altra la presenza di barriere o vantaggi riservati a chi paga. Non a caso, in alcuni forum e chat di gamer italiani compare anche il verbo shoppare1, italianizzazione dell’inglese to shop, usato in modo colloquiale per indicare il fare spese con soldi veri all’interno di un gioco.
I prodotti acquistabili hanno cominciato a variare, includendo tanto oggetti e bonus con funzioni concrete, capaci di avvantaggiare il giocatore o cambiare il suo stile di combattimento, quanto elementi dal valore puramente estetico: le skin. Questa parola (dall’inglese per “pelle”) viene usata per indicare qualsiasi personalizzazione visiva di cui può godere un giocatore, da applicare, ad esempio al suo personaggio o alla sua arma. Pagare per una skin non significa vincere più facilmente, ma esprimere il proprio stile e senso estetico, dando sfoggio della propria personalità anche all’interno di una community virtuale. Così come accade nel mondo materiale.
Il brivido dell’estrazione: loot box e gacha
Nei primi anni 2010 entrano in scena le loot box, pacchetti a sorpresa con ricompense casuali. Il termine si diffonde velocemente, e in Italia viene importato così com’è: tutti dicono “loot box”. A sua volta, l’espressione deriva dal termine loot (bottino), già diffuso da decenni in contesto ludico per indicare ciò che si ottiene sconfiggendo un nemico. Ma l’elemento randomico delle loot box abbinato alla spesa reale, diventa in breve tempo controverso perché richiama molto le meccaniche del gioco d’azzardo, con annessa la dipendenza patologica generata.
Accanto alle loot box si diffondono anche i gacha, un altro sistema di estrazione casuale ispirato ai gachapon, le macchinette a capsule giapponesi. Nei gacha game non si ottengono soltanto oggetti casuali, ma spesso personaggi o unità fondamentali per proseguire, come in Puzzle & Dragons (2012) o nel più recente Genshin Impact (2020). Il sistema ruota attorno alle cosiddette pull (o spin), cioè tentativi di estrazione che richiedono una valuta virtuale e che, in alcuni casi, sono organizzati in sessioni a tempo limitato, chiamate banner, con premi più rari o esclusivi. Rispetto alle loot box, spesso legate a contenuti estetici, i gacha incidono direttamente sulla progressione del gioco: per questo la parola è entrata nel lessico internazionale senza traduzioni, diventando sinonimo di collezionismo e casualità legati al “tiro della sorte”.
Pagare per vincere o per distinguersi
Se con le skin si paga per apparire, con il pay to win si paga per avere un vantaggio concreto. L’espressione, diffusa anche in Italia senza traduzione, diventa presto un’accusa: “quel gioco è pay to win” è il modo più rapido per dire che la competizione non è più leale. Ma nonostante la reputazione spesso negativa che la pratica assume, per le case di produzione di videogiochi talvolta rappresenta una vera e propria miniera d’oro. Alcune di queste programmano i loro videogiochi per creare quanto più dipendenza possibile, talvolta ricorrendo persino a pubblicità ingannevoli che attirano utenti con immagini di giochi che saltano all’occhio, per poi incastrarli in meccaniche totalmente diverse, interamente costruite sulle microtransazioni.
L’obiettivo di quello che sembra un elaborato inganno, portato avanti anche con esose campagne pubblicitarie, è agganciare all’amo la creatura più ambita, rara e inestimabile come la balena di Moby Dick: la cosiddetta whale (appunto, “balena”). Il termine nel gergo dei game developer indica uno di quei pochi giocatori disposti a spendere cifre enormi. Questi giocatori estremamente spendaccioni, nonostante rappresentino una percentuale molto bassa del totale, nella pratica sono coloro su cui si regge per la maggior parte il modello free to play.
L’arrivo dei battle pass
A partire dal 2017, si diffonde un altro termine chiave: battle pass. Introdotto prima da Dota 2 e poi reso celebre da Fortnite, indica un sistema a stagioni che offre ricompense progressivamente, spesso con due livelli: gratuito e a pagamento. Chi sceglie la versione a pagamento non ottiene solo più premi, ma soprattutto oggetti esclusivi (skin, valute interne, bonus) pensati per rendere l’acquisto difficile da ignorare. In questo modo il battle pass diventa uno strumento di monetizzazione costante, che spinge i giocatori a rinnovarlo a ogni stagione per non “perdersi” nulla. Il concetto è stato applicato anche ad altri videogiochi, ma con termini leggermente diversi, ad esempio “Rocket Pass” in Rocket League e “Survivor Pass” in PlayerUnknown’s Battlegrounds.
Dal possesso al servizio: gli abbonamenti
Negli ultimi anni, i modelli di pagamento hanno preso un’ulteriore svolta. Al posto di comprare giochi singoli, i giocatori sottoscrivono un abbonamento, ad esempio PlayStation Plus o Xbox Game Pass, che danno accesso a una libreria in continua rotazione. Anche qui il lessico è rivelatore: assistiamo all’uso dell’espressione “Netflix dei videogiochi” (usata ad esempio per descrivere il servizio Google Stadia, a cui evidentemente non ha portato grande fortuna, poiché è stato chiuso nel 2023), segno che la percezione si è spostata dal possesso al consumo on demand.
Il linguaggio accompagna questa trasformazione: non si parla più di “comprare un gioco”, ma di “avere l’abbonamento”. E il passaggio dal supporto fisico al digitale porta con sé anche concetti nuovi, resi possibili solo in questo contesto: il cross-buy, cioè l’acquisto unico valido su più piattaforme della stessa famiglia, o il cross-platform, che permette di giocare online con utenti di console diverse. Questi termini ma mostrano come il vocabolario segua da vicino i cambiamenti del mercato: non si paga per un singolo disco, ma per un ecosistema interconnesso.
Le espansioni della lingua
Dagli anni ’90 a oggi, i pagamenti di contenuti extra nei videogiochi sono passati dall’acquisto di espansioni corpose all’accesso a librerie on demand. E con ogni nuovo modello è arrivato un termine nuovo, spesso adottato dai giocatori italiani nella sua forma inglese non tradotta. DLC, loot box, skin, battle pass: parole che non solo descrivono pratiche economiche, ma anche identità e relazioni all’interno della comunità videoludica.
Il lessico non è mai neutro. Parlare di microtransazioni fa sembrare irrilevante una spesa che può diventare enorme; dicendo “pay to win” si esprime un giudizio etico prima ancora che tecnico. Raccontare i videogiochi attraverso le parole dei pagamenti significa allora raccontare come i giocatori vivono il rapporto tra passione e denaro, tra gioco e consumo. Una storia senza fine, che continuerà a espandere il nostro vocabolario videoludico con DLC ricchi di neologismi.
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